Lungo i Passi di Celestino V
TAPPA NUMERO 16:
Abbazia di Santo Spirito al Morrone
L’Abbazia ha rappresentato il più cospicuo e celebre insediamento della Congregazione dei Celestini nonché il fulcro della vita culturale, religiosa e civile di un vasto territorio. Il Cenobio sorge alle pendici del Morrone intorno al 1241 ad opera di Frà Pietro di Angelerio, poi Papa Celestino V, che pone mano all’ampliamento di un’antica cappella intitolata a Santa Maria del Morrone e intorno al 1268 promuove la costruzione di una nuova chiesa dedicata allo Spirito Santo e dell’annesso convento.
Il monastero, già nel settembre del 1293, ospita il Capitolo Generale che lo dichiara sede dell’Abate Supremo dell’ordine dei Celestini; il momento di maggiore gloria è certo l’anno 1294 allorchè frà Pietro sale al soglio pontificio e i notabili del tempo vengono a dare l’annuncio al neoeletto, mentre grandi folle riempiono la vallata; durante il pontificato di Celestino V il cenobio viene dotato di molti privilegi ed in particolare Carlo II d’Angiò lo arricchisce di terre e castelli, facendolo divenire uno dei più ragguardevoli del regno.
Con l’andare del tempo le condizioni dell’Abbazia vanno sempre più migliorando: si pensi che la gestione dell’agricoltura e della pastorizia dei territori circostanti, fino a comprendere quelli di Pratola Peligna e di Roccacasale, era di competenza dei Celestini; davanti all’ingresso principale, ancora oggi, si aprono, in posizione simmetrica, due portali in pietra, detti i “portali del feudo” che davano l’accesso alle vaste tenute terriere. La cultura e l’arte, con il favore della buona situazione patrimoniale, vi fioriscono in tutti i secoli, come testimoniano l’istituzione della scuola di Lettere e di Filosofia, la continua presenza di personaggi di rilievo e, non ultimo, la fervida attività di maestranze di grande levatura artistica. Nell’ala sud del complesso troviamo colonne con capitelli decorati con motivi vegetali da riferire alle costruzioni più antiche ora inglobate da pilastri di epoca successiva; sotto la zona presbiteriale della chiesa vi è un’ampia cripta medioevale a pianta irregolare suddivisa da colonne sormontate da originali capitelli decorati con motivi geometrici ed impreziosita da un dipinto degli inizi del XIV secolo raffigurante San Pietro Celestino che dispensa la regola.
Nel 1412 lo scultore Gualtiero d’Alemagna realizza il monumento Caldora-Cantelmi incastonato nel coevo ciclo di affreschi; è documentata nel XV secolo la presenza nel monastero di Mastro Saturnino Gatti architetto, scultore e pittore. Restauri e ampliamenti vengono portati a termine nel XVI secolo: il campanile, simile a quelli contemporanei della chiesa della SS.ma Annunziata in Sulmona e della parrocchiale di Pacentro, è opera dell’abate generale Donato di Taranto completata nel 1596, come attesta l’iscrizione scolpita sotto il cornicione. A Giovan Battista del Frate si deve l’impalcato d’organo della chiesa che reca la data 1681, indicazione cronologica che farebbe ritenere conclusi i lavori dello spazio interno prima del terremoto del 1706.
Tele di gran pregio vengono realizzate da artisti della levatura del Mengs mentre le opere di artigianato artistico sono legate alla perizia e all’inventiva dei maestri pescolani. Sebbene il monastero si sia ampliato in fasi successive subendo di volta in volta modificazioni per soddisfare le mutate esigenze, il modello di vita monastica praticato, ispirato alla regola benedettina dell’ora et labora, dovette guidare la concezione dell’impianto materiale prevedendo vasti ambienti da adibire ad oratorio, refettorio, biblioteca, sala capitolare ma anche, in stretto rapporto con il territorio, stanze di lavoro per accogliere le fiorenti attività artigianali.
I periodi successivi ai due terremoti del 1456 e del 1706 rappresentano i momenti di maggiore trasformazione, in particolare il terremoto del 1706 colpisce duramente Sulmona e danneggia anche la Badia come testimonieranno i lavori del 1709 e soprattutto quelli di notevole qualità del 1730, data incisa anche sull’orologio della chiesa.
Nel 1807 con decreto del 16 giugno, abolita la congregazione celestina, la Badia viene trasformata in “Real collegio dei tre Abruzzi”. Prima della soppressione l’entrata del monastero superava i 6000 ducati annui e il numero dei monaci non era minore di 80.
Successivamente, nel 1818, il complesso viene destinato ad Ospizio e nel 1840 a “Real Casa dei Mendici dei tre Abruzzi”; nel 1868 viene trasformato in Istituto di pena e solo nel 1993 ne viene dismesso l’uso carcerario a seguito della realizzazione della nuova sede della Casa circondariale di reclusione. In data 12.3.1998 l’edificio monumentale, proprietà del Demanio dello Stato, è stato assegnato al Ministero per i Beni e le Attività Culturali.
L’Abbazia, posta nella fascia pedemontana del Morrone, in un territorio fin dall’antico deputato alla sacralità, dialoga da sempre con l’eremo di Sant’Onofrio, rifugio prediletto di frà Pietro, inerpicato sulla roccia, e con l’imponente Santuario di Ercole Curino. Si presenta ancora oggi come un grandioso complesso monumentale di notevole interesse storico-artistico. Di forma quadrangolare (119 x 140 metri circa) circondato da possenti mura è suddiviso da una serie di ampi percorsi verticali ed orizzontali, rimasti per lo più intatti nel tempo, che conducono ai diversi ambienti. È strutturato su cinque cortili dai caratteri molto peculiari che si differenziano nettamente tra loro. Uno dei due antichi cortili di piccole dimensioni conserva tracce dell’impianto di epoca medievale e dell’antico chiostro; il cortile maggiore, impropriamente detto “dei platani” serve da atrio alla chiesa e rappresenta il nodo distributivo dell’intero impianto, su cui affacciano i bei portali in pietra che danno l’accesso agli altri cortili e agli scaloni monumentali; il cortile “dei nobili” propone un elegante apparato decorativo in pietra e stucco mentre l’ultimo, detto “del pozzo”, è rimasto incompleto e presenta le murature ancora prive di intonaco. Notevoli, tra la serie degli spazi che si aprono all’interno dell’Abbazia, le gradinate di accesso ai piani superiori, il refettorio dove, a seguito dei recenti restauri sono venuti alla luce pregevoli dipinti murali e ricche decorazioni in stucco, la farmacia di cui l’Ente Parco Maiella ha di recente recuperato i pregevoli arredi lignei, la biblioteca con elegante colonnato ma ormai priva del cospicuo patrimonio librario e la chiesa. La chiesa è caratterizzata dall’interessante facciata di gusto borrominiano che richiama il S. Carlo alle Quattro Fontane di Roma e dal luminoso e semplice interno a croce greca con cupola all’incrocio dei bracci che imposta su colonne di ordine corinzio, tuttora impreziosito da pregevoli arredi lignei. Il fronte, realizzato dalla felice combinazione della pietra calcarea di tipo compatto e di tipo breccioso, denuncia un rapporto diretto Abruzzo-Roma, partecipando a quel ritorno al Borromini che caratterizzò la cultura architettonica della Roma del periodo.
L’ opera viene attribuita al pescolano Donato di Rocco (come d’altronde il portale di ingresso al Convento è di Catterino di Rainaldi di Pescocostanzo) e questo ripropone l’annosa questione del ruolo avuto dalle maestranze pescolane, spesso ritenute a torto semplici esecutrici di progetti redatti da altri, ma senz’altro da riabilitare a funzioni più complesse di ideazione, oltre che di realizzazione delle opere ad esse assegnate.
A rimarcare la presenza di artisti provenienti dal vivace centro dell’altopiano abruzzese, all’interno della Chiesa, è un’imponente coro a due ordini di stalli in noce, preziosamente intagliati, attribuito a Ferdinando Mosca. L’opera unisce alla purezza di linee dell’impianto una estrema raffinatezza ed eleganza nelle modanature e negli ornati a traforo, dalle delicate soluzioni decorative. Nella elegante cantoria d’organo, mirabilmente intagliata dal milanese Giovan Battista del Frate nel 1681 e dorata da Francesco Caldarella di Santo Stefano, si possono ammirare deliziosi paesaggi che, ad un primo sguardo potrebbero risultare interessanti per la ricostruzione delle vicende storiche dell’Abbazia. Sul coro, al centro dell’abside, rimane una bella tela seicentesca di scuola napoletana, di grandi dimensioni, raffigurante la Discesa dello Spirito Santo, di cui esiste in Abruzzo un bozzetto di proprietà privata.
Testo di Anna Colangelo e Franco De Vitis