Lungo i Passi di Celestino V
TAPPA NUMERO 2:
Santo Spirito a Maiella
Nell’angusta celletta sulle pendici della Porrara, Pietro aveva maturato il desiderio di divenire sacerdote: si recò a Roma e solo dopo alcuni anni tornò sui monti dirigendosi alle falde del Morrone, alla ricerca della grotta dove aveva condotto vita eremitica il Beato Fra’ Flaviano da Fossanova. In seguito decise di cercare un luogo più aspro e isolato e nel suo peregrinare raggiunse la Maiella e la valle dove poi sarebbe sorto il monastero di S. Spirito. Sull’origine di S. Spirito a Maiella i pareri degli studiosi sono discordi: alcuni ritengono che l’eremo sia stato ricostruito da Pietro sui ruderi di un precedente luogo di culto, altri sostengono che Pietro l’abbia costruito ex novo. Comunque, quando egli giunse sulla Maiella la montagna era già nota come asilo di eremiti tanto che, intorno alla metà dell’XI secolo, l’abate Desiderio, che fu eletto papa nel 1086 col nome di Vittore III, vi aveva dimorato grazie alla fama di cui essa godeva già da secoli.
Un ampio piazzale, con fontane ai due estremi e degli interessanti abbeveratoi scavati nella roccia, conduce all’ingresso del complesso. La sua parte bassa potremmo dividerla in tre settori ben definiti. Il primo è costituito dalla chiesa, dalla sagrestia e da una parte abitativa distribuita su due piani. Esiste, inoltre, inferiormente a questo, un piano formato da cinque piccoli vani scavati nella roccia, il quale con molta probabilità rappresenta il nucleo eremitico ai suoi primi inizi. La chiesa si addossa alla parete rocciosa formando l’inizio di un corridoio, più o meno coperto, che si sviluppa per circa 90 metri fino all’inizio della scala santa. Nell’interno della chiesa si distingue la parte presbiteriale, la più antica, con archi a sesto acuto evidenziati da costoloni. Due porticine, di lato all’altare, portano al coro. Al di sotto della chiesa, interamente ricavato nella roccia, troviamo l’Eremo. Un primo ingresso introduce in un piccolo vano con altare e tracce di affreschi, detto la stanza del Crocefisso, dove la tradizione vuole che pregasse Pietro da Morrone.
Il Crocefisso vi fu posto dal Santucci che in questa stanza esorcizzava gli ossessi. Alcuni gradini sulla destra conducono in un altro angusto vano, forse il giaciglio, in comunicazione con l’ossario tramite un’apertura ora murata. A sinistra dell’ingresso si notano alcuni gradini di una stretta e ripida scala che, salendo al piano superiore, introduceva nella sagrestia. Un secondo ingresso, adiacente al primo, porta in due vani comunicanti adibiti, fra l’altro, a sepolcro gentilizio del casato del principe Caracciolo di S. Buono. La parte abitativa è formata da alcune stanzette di servizio al piano terra e da camere al piano superiore raggiungibili, dal coro, tramite una scala.
Il secondo settore è formato da sei grossi locali che proseguono in linea con i precedenti e di cui rimangono le mura fino a circa 150 cm di altezza: sono i ruderi dei servizi del vecchio convento. In corrispondenza di questo blocco, rivolgendoci verso la parete, sono ben visibili, oltre ai fori e agli attacchi di volta sulla roccia, i resti di altre costruzioni con archi e colonne. È abbastanza intuibile lo sviluppo del secondo piano dell’edificio, mentre si può, almeno in alcuni punti, immaginare il terzo. D’altra parte, considerando che a piano terra abbiamo i servizi, il convento non poteva che trovarsi nei piani superiori ora crollati. Il coro occupava l’odierna sagrestia, la quale era situata nella stanza successiva. È logico che un tal numero di ambienti occupava il primo e secondo settore sviluppandosi su tre piani. Certamente, con tali edifici ancora in piedi, la Badia doveva avere un aspetto molto più maestoso, considerando anche il grande edificio che costituisce il terzo settore.
Si tratta della foresteria, o edificio dei pellegrini. Si sviluppa su tre piani, per oltre 30 metri, quasi in linea con i settori precedenti. Per raggiungerlo, si percorre il corridoio rasente la roccia. Questo, coperto solo in corrispondenza del primo settore, lo era anticamente per tutta la sua lunghezza per gli edifici che superiormente si appoggiavano alla parete rocciosa. Quasi a metà del corridoio si incontra una grossa nicchia nella roccia nel cui interno sono state ricavate altre tre piccole nicchie. Quasi di fronte all’ingresso della foresteria comincia la prima rampa della scala santa che, con 31 gradini, portandosi ad oltre otto metri di quota rispetto al corridoio coperto, è al livello del terzo piano. La scala, interamente scavata nella roccia, termina fra i ruderi di altre costruzioni. Posteriormente a queste era posta la cisterna dove confluivano, tramite un eccellente impianto idraulico, le acque captate a monte e quelle piovane. La cisterna era necessaria nei periodi in cui il gelo bloccava il normale afflusso.
Tornando indietro lungo un viottolo, si prende la seconda rampa dal cui ingresso sono ben visibili i ruderi del secondo e del terzo piano. La seconda rampa, formata da due tratti pressoché rettilinei raccordati da una lieve curva, consta di un totale di 76 gradini abbastanza uniformi nelle dimensioni, eccetto alcuni più profondi pianerottoli di sosta. Anch’essa scavata nella roccia, ha però una copertura superiore non uniforme. Sulle pareti di monte delle due rampe è incisa una Via Crucis. La scala termina quasi al centro di una enorme balconata coperta lunga 180 metri.
Tornando indietro lungo un viottolo, si prende la seconda rampa dal cui ingresso sono ben visibili i ruderi del secondo e del terzo piano. La seconda rampa, formata da due tratti pressoché rettilinei raccordati da una lieve curva, consta di un totale di 76 gradini abbastanza uniformi nelle dimensioni, eccetto alcuni più profondi pianerottoli di sosta. Anch’essa scavata nella roccia, ha però una copertura superiore non uniforme. Sulle pareti di monte delle due rampe è incisa una Via Crucis. La scala termina quasi al centro di una enorme balconata coperta lunga 180 metri.
La parte a sinistra costituisce il verziere inferiore a cui si accede per un ingresso ricavato nel muro di chiusura, perpendicolare alla parete. Una statua di S. Antonio Abate, scolpita in alto nella roccia, domina tale ingresso. Andando invece verso destra, due piccole rampe di 7 e 5 gradini, raccordanti due livelli del riparo, conducono verso la scala di accesso al piccolo complesso della Maddalena.
Tale oratorio è ricavato su di uno sperone interno alla balconata ed occorrono due rampe di scale, una esterna ed una interna, per portarsi alla quota della chiesa. La prima scalinata, molto aerea, conduce a un piccolo ballatoio roccioso su cui si apre l’ingresso della chiesa. Sopra l’ingresso, in una nicchia, una piccola statua della Maddalena. La scalinata interna è illuminata da tre finestre a strombo alla sua destra. La chiesa presenta un semplice altare sul fondo con sopra un affresco raffigurante la Deposizione. Alla sinistra dell’altare, una porta immette nella sagrestia e da questa in un vano diroccato col fronte su di un terrazzo. All’interno del vano, una scala irregolare, adiacente alla roccia, conduce in un minuscolo piano superiore costituito da una stanzetta di circa 3×3 metri con una finestra ed un camino in proporzione. Sul lato destro dell’altare, un’altra porta conduce su un panoramico terrazzo che termina sulla sommità di una scalinata. Scendendo si prende un sentierino, in parte scavato nella parete, che riconduce al piazzale.
Dal ballatoio, dove termina la scalinata esterna, parte un camminamento in parete che conduce al verziere superiore, chiuso, questo, per tutta la sua lunghezza da un basso muretto. La parte nota della Badia è tutta qui. Ma anticamente doveva avere delle piccole appendici, almeno a giudicare da quanto si legge nella Raccolta di Notizie Storiche… di Mons. Saggese: …poco sopra vi è un oratorio e due stanze ed un orticello in forma di eremitorio chiamato S.M. Maddalena. Più sopra un altro di S. Antonio, e più ad alto il terzo detto il Monte Calvario, nelle pareti del medesimo monte. (G.M. Saggese, Raccolta di Notizie Storiche sulle parrocchie della diocesi di Chieti, manoscritto, Archivio Curia Arcivescovile di Chieti)
Sempre dalla Raccolta di Notizie Storiche… riporto un brano dell’Abate Pacichelli (G.B. Pacichelli, Memorie dei viaggi per l’Europa Cristiana, Napoli 1685) che mi sembra interessante sotto diversi aspetti. Il monastero guarda il mezzogiorno con le finestre, ha un fonte assai freddo che spruzza pure avanti la detta chiesa: non vi manca la Foresteria e le officine con le altre opportune comodità mantenendo circa a venti padri con l’Abate e raccogliendo più di mille ducati l’anno senza il grano, l’orzo, l’olio, il vino, ed altri combustibili di propri territori vicini e in Caramanico, Roccamorice e altre terre dove per provvedere si trattengono gli oblati e de’ servidori. In cinque mesi però del verno le nevi obbligano i medesimi ad aggiustarsi alcuni cerchi legati con le corde sotto le scarpe altrimenti non potrebbero pervenire a quel chiostro. A parte le notizie economiche e sulla organizzazione del convento, trovo particolarmente curiosa quella delle rudimentali racchette da neve usate per raggiungere il monastero.
- Spirito a Majella è senza dubbio il complesso più famoso del massiccio oltre che il più ricco di storia e di tradizioni. Ha subito molte trasformazioni nel corso degli ultimi mille anni, ma conserva ancora tutto il suo fascino dovuto alla stupenda sua posizione nella valle a cui ha dato il nome, nonché all’atmosfera di mistero che ivi regna nel dedalo di scale e negli orti abbandonati.
Nel 1252 doveva essere già notevole la fama di santità di Pietro e del suo piccolo gruppo di anacoreti, a giudicare dalle donazioni cospicue da parte dei vicini signori: Gualtiero de Palearia cede in favore del monastero di S. Spirito a Majella il diritto di patronato sulla chiesa edificata sulla Majella, contrada “Ligio”, territorio e distretto di Roccamorice. Similmente dona al monastero il diritto di pascolo, far legna, costruire mulini, deviare il corso delle acque, anche attraverso i terreni dei sudditi del conte (A. Balducci, Regesto delle pergamene dalla Curia Arcivescovile di Chieti, Casalbordino 1926, p. 12). Poiché con una lettera del 1° giugno 1263 da Orvieto il papa Urbano IV delega il vescovo di Chieti Nicola di Fossa ad incorporare i monaci di S. Spirito nell’Ordine di San Benedetto, come da espressa richiesta di Pietro, è chiaro che in tale data sia S. Spirito sia gli altri luoghi sacri fossero già ricostruiti e funzionanti. Conferma di ciò ci viene sempre da una lettera del vescovo Nicola che, in data 1278, si riferisce ai luoghi sacri restaurati da Pietro, esimendoli da qualsiasi diritto episcopale. Pertanto, bisogna supporre che S. Spirito, l’unico Eremo col titolo di monastero, avesse già delle strutture rispettabili per essere capo dell’Ordine; questo titolo invero mantenne fino al 1293, quando, considerate le maggiori comodità di accesso, se ne fece il trasferimento a S. Spirito del Morrone. Il secolo successivo, oltre al priorato del Beato Roberto da Salle dal 1310 al 1317, l’Eremo vide la presenza, nel 1347, di Cola di Rienzo, il quale vi dimorò diversi mesi. Nei due secoli successivi ci fu invece un lento declino, probabilmente dovuto, almeno in parte, alle enormi difficoltà di mantenere efficiente un tale complesso in quelle severe condizioni climatiche.
Il monaco Pietro Santucci da Manfredonia nel 1586 trovò il monastero in completo abbandono e i luoghi sacri adibiti a stazzi. Riuscì, nel giro di cinque anni, a rimettere in piedi il complesso costruendo, fra l’altro, la scala santa che porta all’oratorio di S. M. Maddalena. Sotto la sua spinta ci fu una rinascita della vita monacale nella valle, tanto che S. Spirito meritò il titolo di Badia; di questa il Santucci fu nel 1616 il primo abate, pur non avendo il numero minimo di monaci previsto. Egli fu anche il fautore della traslazione, l’11 aprile 1591, dal diruto monastero di Vallebona presso Manoppello a quello di S. Spirito delle ossa di S. Stefano detto il Lupo: uno degli eremiti giunti nei secoli precedenti nella valle dell’Aventino. In seguito, il complesso si ingrandì ulteriormente con la costruzione della foresteria da parte del principe di S. Buono. Fra alti e bassi si giunse al 1807, anno della soppressione delle comunità monastiche. La Badia fu nuovamente abbandonata, spogliata del poco che vi era rimasto e data in preda alle fiamme. Nel corso dell’Ottocento più volte si tentò di rimettere in piedi il monastero, ma sempre con scarsi risultati. Alla fine del secolo, per opera di alcuni fedeli di Roccamorice, fu restaurata e riaperta al culto almeno la chiesa. Alla fine dello scorso secolo furono fatti dei restauri per consolidare alcune strutture e rendere agibile la Foresteria.
Testo di Edoardo Micati